Giacomo Leopardi tutte le poesie
Giacomo Leopardi tutte le poesie, raccolta delle poesie più belle e più famose di Leopardi con testo, parafrasi e commento.
Tutte le poesie di Giacomo Leopardi
Andiamo ad analizzare con testo, parafrasi e commento tutte le poesie più famose di Leopardi ovvero Il sabato del villaggio, A Silvia, L’infinito, Il passero solitario, La ginestra, A se stesso.
Il sabato del villaggio poesia testo
La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba, e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro lá dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni dell’etá piú bella.
Giá tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giú da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dá segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e lá saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
Questo di sette è il piú gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier fará ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta etá fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
Il sabato del villaggio Leopardi parafrasi
La fanciulla viene dalla campagna, al tramonto, con l’erba che ha raccolto per i suoi animali; e con in mano un mazzo di rose e viole, con le quali si prepara per ornarsi domani, il giorno di festa, il petto e i capelli.
Una vecchia signora è seduta con le vicine sull’entrata di casa sua a filare, rivolta verso il tramonto; parla della sua giovinezza come se raccontasse una bella favola, e parla di quando anche lei si ornava con i fiori, e ancora sana e snella era solita danzare la sera in mezzo a quelli che furono i suoi compagni di giovinezza.
L’aria si fa scura, e il cielo, che nel crepuscolo era pallido, ora ritorna azzurro cupo e le ombre si allungano, giù dai colli e dai tetti, alla luce della luna appena sorta.
Ora la campana annuncia della festa del giorno seguente; e quel suono sembra confortare il cuore dalle fatiche della settimana. I fanciulli gridano sulla piazza in gruppo e saltando qua e là fanno un lieto rumore: e intanto torna lo zappatore fischiando, e fra sé e sé pensa al giorno di riposo che lo aspetta.
Poi quando intorno ogni luce è spenta, e tutto tace, sento il martello picchiare, sento la sega del falegname, che lavora nella bottega alla luce di un lume ad olio, e si affretta e si dà da fare per completare il lavoro prima dell’alba.
Questo (sabato) è il più gradito giorno della settimana, pieno di speranza e di gioia: domani tristezza e noia entreranno a far parte della giornata, perché ognuno ritornerà con il pensiero alle fatiche di tutti i giorni che l’indomani riprenderanno.
Fanciullo scherzoso, questa tua età piena di gioia, è come un giorno pieno di allegria, giorno chiaro, sereno, che precede la giovinezza, età felice della tua vita.
Godi fanciullo mio questa condizione, questa è un’età felice.
Non voglio dirti altro; ma non ti dispiaccia se la giovinezza e l’età matura tardano a giungere.
Il sabato del villaggio Leopardi commento
La poesia Il sabato del villaggio si può definire una metafora dell’esistenza: Leopardi comunica al lettore che il sabato, metafora della giovinezza e dell’età delle illusioni, viene vissuto con gioia e spensieratezza perché il giorno seguente è festa. La domenica, metafora dell’età adulta e delle disillusioni, viene invece vissuta con malinconia, tristezza e noia perché la mente già è proiettata al giorno seguente ovvero al lunedì, giornata di lavoro.
A Silvia poesia testo
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltá splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventú salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
cosí menare il giorno.
Io, gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu, pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dí festivi
ragionavan d’amore.
Anche pería fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negâro i fati
la giovanezza. Ahi, come,
come passata sei,
cara compagna dell’etá mia nova,
mia lacrimata speme!
questo è quel mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
A Silvia Leopardi parafrasi
Silvia, ricordi ancora
quel tempo della tua breve vita mortale
quando nei tuoi occhi ridenti e timidi
splendeva la bellezza, e tu, felice
e pensierosa, ti avvicinavi
al fiorire della giovinezza? Il tuo canto perpetuo risuonava
nel silenzio delle stanze, e nelle vie attorno,
quando sedevi presa dai lavori femminili,
felice di quel futuro misterioso
che provavi a immaginarti. Era il maggio
profumato: e tu passavi così ogni tua giornata. Io, di tanto in tanto, trascurando
gli studi amati e le pagine su cui mi affaticavo,
dove la mia giovinezza e il mio corpo
andavano consumandosi,
dai balconi della casa paterna
mi mettevo ad ascoltare il suono della tua voce,
e il ritmo rapido delle tue mani affaticate
nel tessere la tela.
Guardavo il cielo sereno,
le vie color dell’oro, le campagne,
e da un lato il mare, dall’altro le montagne.
Non esistono parole umane per descrivere
ciò che provavo in quei momenti…Che pensieri soavi, che speranze,
che emozioni avevamo, mia cara Silvia!
Come ci sembrava la vita
umana e il destino!
Quando ripenso a speranze così grandi,
un dolore disperato mi strugge il cuore,
e torno a dispiacermi
della mia sventura. O natura, natura,
perché non restituisci mai quello che hai promesso?
Perché inganni così tanto le tue creature? Tu, prima che l’inverno inaridisse l’erba,
Silvia, piccola mia, sfinita e vinta
da una malattia occulta, morivi. E non vedevi
il fiore dei tuoi anni, e non ti accarezzava il cuore
la lusinga per i tuoi capelli nerissimi,
e per il tuo sguardo vergine che fa innamorare;
né le tue amiche, nei giorni di festa,
chiacchieravano d’amore con te. Dopo non molto, morì pure
la mia speranza: anche a me il destino ha negato
gli anni della giovinezza. Ahimè,
come, come te ne sei andata, cara compagna
della mia gioventù, mia speranza rimpianta.
Sarebbe questo quel mondo?
Questi i piaceri, l’amore, le azioni, gli eventi
su cui tanto abbiamo fantasticato?
È davvero questa la sorte del genere umano?
All’apparire della verità
tu, misera, sei caduta:
e da lontano con la mano mi indicavi
una tomba spoglia e la fredda morte.
A Silvia Leopardi commento
Nella poesia A Silvia, scritta nel 1828, Leopardi introduce il tema del pessimismo cosmico: la Natura viene vista come matrigna e come principale causa della sofferenza dell’essere umano. Infatti così come le speranze e le attese di Silvia vengono spezzate dalla morte giunta improvvisamente, anche le speranze del poeta sono state profondamente deluse dal contatto con la verità tipico della vita adulta.
L’infinito poesia testo
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
L’infinito Leopardi parafrasi
Ho sempre amato questo colle solitario
e questa siepe, che impedisce al mio sguardo
di scorgere l’interezza dell’estremo orizzonte. Ma quando sono qui seduto, e guardo, comincio
a immaginarmi spazi sterminati al di là di essa,
e un silenzio sovrumano, e una pace abissale,
fin quasi a sentire il cuore tremante di paura. E non appena sento il fruscio degli alberi carezzati
dal vento, questa voce paragono
a quel silenzio infinito: e d’improvviso nella mia mente
affiora l’eternità, e tutte le ere ormai trascorse,
e quella presente, viva, con la sua voce. Così il mio pensiero è sommerso in quest’immensità
ed è dolce, per me, inabissarmi in questo mare.
L’infinito Leopardi commento
La poesia L’infinito, scritta da Leopardi tra il 1818 e il 1819, rappresenta perfettamente la poetica del vago e dell’indefinito. L’infinito dello spazio e del tempo viene definito attraverso il confronto con una percezione di limite sensoriale ovvero un colle e una siepe che ostacolano lo sguardo del poeta. Infatti la siepe, posizionata su un colle poco lontano dall’abitazione del poeta, impedendo la vista di ciò che sta al di là di essa mette in moto un processo immaginativo permettendo così a Leopardi di fantasticare sul concetto di infinito proprio a partire da quella sensazione di limitatezza. Anche il rumore delle foglie mosse dal vento, confrontato con le immagini di infinito, propone un secondo concetto legato al limite, quello di eterno. L’ immaginazione suscitata da questa esperienza permette così il raggiungimento di un piacere indefinito.
Giacomo leopardi tutte le poesie
Dopo Il sabato del villaggio, A Silvia e L’infinito siamo così giunti a metà articolo. Non resta che andare ad analizzare anche le ultime 3 poesie ovvero Il passero solitario, La ginestra e A se stesso sempre con testo, analisi e commento.
Il passero solitario poesia testo
D’in su la vetta della torre antica,
passero solitario, alla campagna
cantando vai finché non more il giorno;
ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera d’intorno
brilla nell’aria, e per li campi esulta,
sí ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
gli altri augelli contenti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri,
pur festeggiando il lor tempo migliore:
tu pensoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
canti, e cosí trapassi
dell’anno e di tua vita il piú bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
della novella etá dolce famiglia,
e te, german di giovinezza, amore,
sospiro acerbo de’ provetti giorni,
non curo, io non so come; anzi da loro
quasi fuggo lontano;
quasi romito, e strano
al mio loco natio,
passo del viver mio la primavera.
Questo giorno, ch’omai cede alla sera,
festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
odi spesso un tonar di ferree canne,
che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
la gioventú del loco
lascia le case, e per le vie si spande;
e mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io, solitario in questa
rimota parte alla campagna uscendo,
ogni diletto e gioco
indugio in altro tempo; e intanto il guardo
steso nell’aria aprica
mi fère il sol, che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua, e par che dica
che la beata gioventú vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; ché di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia vòto il mondo, e il dí futuro
del dí presente piú noioso e tetro,
che parrá di tal voglia?
che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi! pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.
Il passero solitario Leopardi parafrasi
Dal punto più alto della torre antica tu, o passero solitario, canti continuamente rivolto verso la campagna finché viene sera; e l’armonia del tuo canto si diffonde per tutta questa valle. La primavera splende tutt’intorno e si manifesta trionfalmente nel rigoglio dei campi: a contemplarla nella sua bellezza il cuore si riempie di tenerezza. Si sentono le pecore belare, le vacche muggire; e gli altri uccelli, contenti, volteggiano a gara nel cielo sereno, intenti solo e di continuo a festeggiare la stagione più bella per loro: tu, invece, guardi il tutto stando in disparte pensieroso; non cerchi compagni, non t’importa dei voli, non ti curi dell’allegria, eviti i divertimenti, canti solamente e così trascorri il periodo migliore dell’anno e della tua vita. Ahimè, quanto assomiglia il mio al tuo modo di vivere! Il divertimento e la gioia, che sono la compagnia dolce e inseparabile della giovinezza, e l’amore, fratello della giovinezza e rimpianto amaro dell’età matura, io non curo, non so perché; anzi quasi li sfuggo e me ne allontano; trascorro la mia giovinezza solitario e quasi estraneo al mio luogo nativo. Questo giorno, che ormai giunge a termine, si usa festeggiare al mio paese. Si sente per l’aria serena un suono di campana, si sente spesso lo scoppio di colpi di fucile, che rimbomba lontano di borgo in borgo. La gioventù del luogo, tutta vestita da festa, abbandona le case e si sparge per le vie; e ammira ed è ammirata, e in cuor suo si rallegra. Io, invece, uscendo da solo in questa parte della campagna lontana dall’abitato, rimando ad altro tempo ogni gioco e divertimento: e intanto il sole mi ferisce lo sguardo perso per l’aria luminosa, il sole che tramontando scompare tra i monti lontani, dopo una giornata serena, e dileguandosi sembra annunciare che la beata gioventù sta finendo. Tu, solitario uccellino, arrivato alla fine della vita che il destino ti concederà, non ti lamenterai certamente di come hai vissuto; perché ogni vostro desiderio è frutto della natura. A me, invece, se non ottengo di evitare l’odiosa soglia della vecchiaia, quando i miei occhi non diranno più nulla al cuore degli altri e il mondo apparirà loro privo di senso, e l’indomani più noioso e cupo dell’oggi, che cosa penserò della mia voglia di solitudine? Che cosa di questi anni giovanili? Che cosa di me stesso? Ah, mi pentirò, e più volte mi rivolgerò sconsolato al passato.
Il passero solitario Leopardi commento
Il passero solitario è certamente la riflessione sulla solitudine più celebre di tutta la poesia italiana. Infatti Leopardi nota diverse caratteristiche che lo accomunano a un passero: entrambi sono soli e sembrano destinati a rimanerlo. Leopardi si accorge di somigliare a quel passerotto che canta in disparte trascorrendo così triste e solitario “il più bel fiore della tua vita” cioè la primavera, intesa sia come il momento più bello dell’anno sia come la giovinezza, il momento più bello e spensierato della vita.
La ginestra poesia testo
Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra se. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco d’or nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel, profondo
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Sull’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontano l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri, per li templi
Deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per voti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino,
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
La ginestra Leopardi parafrasi
Qui sulle aride pendici
del terribile vulcano
distruttore, il Vesuvio,
che non sono rallegrate da nessun albero né fiore,
tu spargi i tuoi rami solitari,
o profumata Ginestra,
felice di trovarti nei deserti. Ti ho già vista
abbellire con i tuoi steli le campagne disabitate
che circondano la città ( di Roma)
che un tempo fu dominatrice degli esseri umani,
e sembra che questi luoghi col loro aspetto cupo e silenzioso
testimonino e ricordino a chi passa
il grande impero perduto.
Ti rivedo ora su questo suolo, tu che sei amante
di luoghi tristi e abbandonati dal mondo,
e sempre compagna di grandezze decadute.
Questi terreni, cosparsi
di ceneri sterili, e ricoperti
dalla lava solidificata,
che risuona sotto i passi del viandante;
dove si annida e si contorce sotto al sole
il serpente, e dove il coniglio torna
all’abituale tana tra le caverne;
furono città ricche e campi coltivati,
biondeggiarono di campi di grano, e risuonarono
di muggiti delle mandrie;
furono giardini e ville sontuose,
un gradito rifugio
per l’ozio dei potenti; e furono città famose
che il vulcano indomabile, eruttando
dalla bocca di fuoco torrenti di lava
distrusse insieme con i loro abitanti. Ora qui intorno
la rovina avvolge tutto,
là dove tu hai radici, o fiore gentile e, quasi
compiangendo le miserie altrui, verso il cielo
emani un profumo assai dolce,
che allieta il paesaggio desertico. A questi luoghi deserti
si rechi chi è solito esaltare ed elogiare
la nostra umana condizione, e veda
quanto la natura benigna si preoccupa
dell’uomo. E in maniera opportuna
potrà anche valutare
la potenza del genere umano,
che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se l’aspetta,
con una scossa impercettibile distrugge in parte
in un solo momento, e può con moti
poco meno lievi all’improvviso
annientare del tutto.
Qui guardati e ammira la tua immagine riflessa,
secolo superbo e stolto,
che hai abbandonato la strada segnata
sin qui dal pensiero rinascimentale,
e tornato sui tuoi passi,
ti vanti del tuo procedere all’indietro,
e lo chiami addirittura progresso.
Tutti gli ingegni,
di cui una sorte malvagia ti ha reso padre,
sono intenti ad adulare il tuo atteggiamento infantile,
benché a volte, tra di loro,
si facciano beffe di te. Io non
verrò sotterrato macchiandomi di una simile vergogna;
ma piuttosto avrò mostrato chiaramente
il disprezzo nei tuoi confronti
che è rinchiuso nel mio cuore:
benché io sappia che all’oblio
è destinato chi troppo ha biasimato il proprio tempo.
Di questo male, che sarà in comune
tra me e te, finora ne rido molto.
Vai sognando la libertà, e nel frattempo vuoi
che il pensiero sia di nuovo servo, (quel pensiero)
in virtù del quale soltanto risorgemmo
in parte dalla barbarie, e per cui solo
si può crescere in civilizzazione, che da sola guida
i destini dei popoli verso il meglio.
Perciò ti ha infastidito la verità
sulla sorte amara e sul mondo infelice
che la natura ci ha assegnato. Per questo motivo,
vigliaccamente hai voltato le spalle al pensiero
che ci ha mostrato queste cose: e, mentre fuggi,
chiami vile chi segue quella via,
e definisci magnanimo solo chi,
astuto o stolto, illudendo sé stesso o gli altri,
esalta fin sopra le stelle la condizione umana.
Un uomo di umile condizione e salute cagionevole,
che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti,
non definisce né reputa se stesso
ricco di beni o di vigore fisico,
e non ostenta ridicolmente
tra la gente la sua vita lussuosa
o il suo bell’aspetto;
ma senza vergogna si mostra privo
di forza fisica e di beni materiali, e chiama
apertamente le cose col loro nome, e stima
le sue cose in modo aderente alla verità.
Non penso che sia un essere
magnanimo, ma sciocco chi,
nato per morire, nutrito di sofferenze,
afferma: “Sono stato creato per essere felice”,
e di nauseante orgoglio
riempie i suoi scritti, promettendo in terra,
a quei popoli che un’onda di
un mare tempesta,
una pestilenza, un terremoto
possono distruggere in modo che
ne sopravviva a stento il ricordo,
un destino esaltante e straordinarie
felicità, che il cielo stesso ignora.
Nobile spirito è quello
che ha il coraggio di sollevare
i propri occhi mortali contro
il destino comune, e che con parole oneste,
senza nulla togliere alla verità,
confessa il male che ci è stato assegnato,
e la nostra insignificante e fragile condizione;
quello che si mostra coraggioso e forte
nella sofferenza, e che non aggiunge
alle sue sciagure
né gli odi né le ire fraterne,
più gravi ancora di ogni altro danno,
dando la responsabilità all’uomo del suo dolore,
ma dà la colpa a colei che è davvero responsabile ( la natura),
che per gli uomini è madre perché li ha generati e matrigna per come li tratta.
Chiama nemica costei ( la natura); e pensando
di essere, com’è vero,
unita e schierata contro di lei,
la società umana
ritiene che tutti gli uomini siano alleati tra loro
e tutti li stringe in un abbraccio
con vera partecipazione, offrendo
ed aspettando un valido e rapido aiuto
nelle alterne difficoltà e nelle sofferenze
della comune lotta. E crede che
sia cosa stolta armarsi e porre insidie
per contrastare un proprio simile,
così come sarebbe stupido,
in un campo di battaglia circondato dai nemici,
nel momento più feroce dell’assalto,
dimenticando i nemici, aprire
aspre ostilità contro i proprio compagni
e disseminare la fuga o tirare colpi di spada
tra i propri guerrieri.
Quando considerazioni di questo tipo
saranno, come lo sono state in passato, evidenti al popolo;
e quel terrore che per primo
unì gli uomini contro la natura malvagia
in una catena di solidarietà,
sarà ricondotto in parte
a una vera sapienza, allora l’onestà e la rettitudine
degli esseri umani
e la giustizia e la pietà, avranno un’altra radice
che non l’ottusa fiducia,
sulle cui fondamenta la mentalità del popolo
è solita star in equilibrio come può stare
chi ha il proprio fondamento nell’errore.
Spesso siedo nottetempo su questi luoghi,
che, deserti, la lava solidificata,
e sembra muoversi ancora, ricopre di un colore
marrone scuro; e sul triste paesaggio,
sotto un cielo terso e pulitissimo
vedo risplendere le stelle nel cielo,
alle quali il mare, da lontano, fa da specchio,
e tutto il mondo brilla di scintille
per l’universo sereno.
E fissando con gli occhi quelle luci,
che a loro paiono solo dei puntini,
e invece sono talmente grandi, che in realtà
terra e mare sono solo un punto al loro
cospetto; alle quali
non solo l’uomo,
ma questa stessa Terra dove l’uomo vale nulla,
è del tutto sconosciuto; e quando ammiro
quelle lontane e infinite
costellazioni di stelle,
che ci sembrano come una nebbia, alle quali non l’uomo,
non la terra soltanto, ma tutte insieme le nostre stelle,
infinite per numero e per mole,
insieme col sole dorato
o sono sconosciute o appaiono come
loro sembrano alla Terra, e cioè
un punto di luce fioca; allora come appari
al mio pensiero,
o stirpe umana? E ricordando
il tuo stato sulla terra, di cui è testimonianza
il suolo vulcanico che io calpesto; e d’altra parte
(ricordando) che ti reputi padrona
e fine ultimo dell’universo; e (ricordando) quante volte
ti è piaciuto fantasticare su come i creatori (gli dei)
del mondo siano scesi su questo oscuro
granello di sabbia, che ha nome Terra,
per causa tua, e su come spesso abbiano conversato
piacevolmente con i tuoi simili; e (ricordando)
che perfino la presente età, che per conoscenza
e costume civile
sembra essere così superiore alle età precedenti,
insulta i saggi, raccontando di nuovo
sogni già derisi in passato;
che sentimento o che pensiero, o umanità infelice,
assale alla fine il mio cuore nei tuoi confronti?
Non so se prevale il riso o la pietà.
Come un piccolo frutto cadendo dall’albero,
che nell’autunno inoltrato la maturazione
fa precipitare a terra senza altra forza,
schiaccia, annienta e sommerge
in un attimo gli accoglienti nidi di un popolo di formiche,
scavati nel terreno molle
con gran lavoro, e le gallerie
e le riserve di cibo che con lunga fatica
le infaticabili formiche in gara tra loro hanno
raccolto con previdenza nella stagione estiva;
così, piombando dall’alto,
dalle viscere rumorose del vulcano
scagliate in alto verso il cielo,
le tenebre
fatte di cenere, pomice e sasso,
mescolate ai bollenti ruscelli,
oppure un’immensa piena
di massi liquefatti
di metalli e di sabbia infuocata,
che scende furiosa tra l’erba,
lungo il fianco del monte
sconvolse, distrusse e ricoprì
in pochi attimi
le città che il mare bagnava
sulla costa: così ora su quelle città pascola
la capra, e nuove città
sorgono all’esterno della colata, a cui fanno
da sgabello le città sepolte, e l’alto monte
quasi calpesta col suo piede le mura crollate.
La natura non nutre per il genere
umano maggiore stima o cura
che per la formica: e se la strage
avviene più raramente tra quelli (gli uomini) che tra queste (le formiche),
ciò avviene d’altra parte solo perché
la stirpe degli uomini è meno feconda.
Sono passati ben mille e ottocento
anni da quando scomparirono, sepolti
dalla forza della lava infuocata, le affollate città
e il contadino intento a lavorare
nei vigneti, che la terra arida e bruciata,
nutre a fatica in questi campi,
alza tuttora lo sguardo
sospettoso verso la cima del vulcano
portatore di morte, che per nulla resa più mite,
ancora lo sovrasta tremenda, ancora minaccia
una strage a lui (il contadino), ai suoi figli
e ai loro miseri averi. E spesso
il poverello sul tetto
della sua rustica casa, trascorrendo
insonne tutta la notte all’aperto,
e sobbalzando più volte (per la paura), osserva ansioso
il procedere del temuto ribollire, che cola
dalle inesauribili viscere
sul pendio sabbioso, al cui bagliore risplende
la marina di Capri
e il porto di Napoli e il quartiere Mergellina.
E se lo vede avvicinarsi, o se sente
per caso gorgogliare in fermento
nel profondo del pozzo di casa, sveglia i figli,
sveglia la moglie in fretta, e subito va via, con quanto
delle loro cose possono prendere e, in fuggendo,
vede da lontano la quotidiana
abitazione, e il modesto campo,
che costituì per lui l’unica difesa alla fame,
preda della colata incandescente
che avanza con mille crepitii, e inesorabile
si stende per sempre sopra quelli (campo e casa).
Alla luce del sole torna,
dopo un oblio secolare, l’estinta
Pompei, come uno scheletro
sepolto, che dalla terra viene all’aperto
per desiderio di ricchezza o pietà;
e dal foro deserto
dritto in mezzo alle fila
dei colonnati diroccati il pellegrino
contempla da lontano la doppia cima (il Vesuvio e il monte Somma)
e il pennacchio di fumo,
che ancora minaccia le rovine sparse (di Pompei).
E nell’orrore della notte oscura
per i teatri abbandonati,
per i templi crollati e le case
devastate, dove il pipistrello nasconde i propri figli,
come una fiaccola misteriosa
che si aggiri lugubre tra i palazzi vuoti,
corre il bagliore della lava assassina,
che da lontano in mezzo all’ombra
rosseggia e colora i luoghi tutt’intorno.
Così, del tutto indifferente all’uomo e alle ere
che egli chiama antiche, e del susseguirsi
delle generazioni umane,
la natura rimane sempre giovane e vigorosa, ed anzi procede
per un cammino così lungo che ella pare
immobile. Nel frattempo, crollano i governi,
passano le genti e le culture: ella non se ne accorge:
e l’uomo pretende il diritto all’eternità.
E tu, flessibile ginestra,
che con i tuoi cespugli odorosi
adorni queste campagne desertificate,
anche tu presto soccomberai alla potenza
crudele della lava in eruzione,
che ritornando ai luoghi
già colpiti, stenderà sui tuoi molli rami
il suo mantello avido di morte. E piegherai
sotto la colata mortale senza opporre resistenza
il tuo capo innocente:
ma senza averlo piegato fino a quel momento,
con suppliche inutili e codarde
al futuro oppressore; e senza averlo alzato
con forsennato orgoglio contro le stelle,
né sul deserto, dove
tu sei nata e hai dimora
non per scelta ma per gioco del caso;
ma più saggia, e tanto
meno debole ed insensata dell’uomo, poiché
non hai mai creduto che la tua specie
fosse stata resa immortale o dal destino o da te stessa.
La ginestra Leopardi commento
La poesia La ginestra, scritta nel 1836, si può considerare come il testamento spirituale di Leopardi: si tratta di una canzone libera in 7 strofe in cui il poeta enuncia la filosofia dell’arido vero, invitando anche a vivere prendendo esempio dalla ginestra, ovvero con dignità e accettando la propria sorte. Infatti per Leopardi l’uomo può attenuare il dolore dell’esistenza solo rendendosi conto che anche tutti gli altri uomini vivo nella medesima condizione di sofferenza.
A se stesso poesia testo
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perí l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perí. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanitá del tutto.
A se stesso Leopardi parafrasi
Ora, o mio cuore stanco, riposerai per sempre. Svanì l’ultima illusione che avevo creduto eterna. Svanì. Sento profondamente che in me e in te non solo la speranza ma anche il desiderio di care illusioni è spento. Riposa per sempre. Troppo hai sofferto. Non c’è nessuna cosa che valga i tuoi palpiti, né il mondo è degno dei tuoi sospiri. La vita non è altro che amarezza e noia; e spregevole è il mondo. Calmati ormai. Rinuncia definitivamente ad ogni speranza. Agli uomini il destino donò solo la morte. Ormai (o mio cuore) disprezza te stesso, la natura, il potere perverso che domina occultamente a danno di tutto e l’infinita vanità dell’universo.
A se stesso Leopardi commento
Leopardi compose la poesia A se stesso tra il 1833 e il 1835, quando scoprì che la donna amata non provava per lui alcun sentimento. E così il poeta si rivolge al proprio cuore invitandolo a smettere di soffrire: l’ultima delusione sia veramente l’ultima, perché al mondo non c’è nulla per cui valga la pena di soffrire. Per concludere il commento si può inoltre dire che in questa poesia Leopardi esprime la ferma volontà di non lasciarsi più illudere da niente affrontando il destino che lo attende con dignità, consapevole dell’effimera vanità di tutto ciò che lo circonda.